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Architecture, a place to be loved

- Alessia Cardellicchio -

Architecture, a place to be loved ©Matteo de Mayda

Courtesy: La Biennale di Venezia

Nei Giardini della Biennale si trova la base dell’architettura giapponese in Italia, realizzata dall’architetto Takamasa Yoshizaka nel 1956, in questo capolavoro, che ha visto, negli anni, ospitate tantissime persone, la curatrice Maki Onishi e i suoi collaboratori, quest’anno, hanno deciso di concepire tale padiglione come una creazione dei visitatori, quindi come una creatura vivente, alimentato non solo da piante, modellini e sezioni che sono la base dell’architettura, ma soprattutto dai visitatori e dai propri sensi.

La narrazione giapponese avviene, non solo grazie al campo architettonico ma anche grazie a quello dei tessuti, del design, delle lavorazioni del metallo e a mano e si sviluppa con le creazioni e percezioni di chi visita, il padiglione è un progetto in divenire, continua ad essere costruito mentre si utilizza e molto probabilmente viene amato proprio per questo perché diventa un progetto costruito insieme, una sorta di creatura da curare quotidianamente, forse proprio da questo concetto viene il titolo del padiglione “Architecture, a place to be loved”, perché sottolinea il concetto che l’architettura non è solo qualcosa di disegnato ma è anche qualcosa che ha un valore tangibile e viene colmato e arricchito dal vissuto degli altri, deve essere amato per vivere e per vivere bene deve essere allevato.

Il padiglione si sviluppa su 2 piani: il piano superiore è chiuso ed è il luogo in cui si sviluppa il progetto con foto, modellini e disegni, è un’area calma e luminosa, si accede al piano rialzato tramite una scalinata sormontata da una copertura a tenda appoggiata alla facciata, realizzata da Akane Moriyama, la tenda è realizzata in poliestere riciclato, un materiale organico, è leggera ma riesce a svolgere la sua funzione di riparo da luce e vento ma allo stesso tempo non interrompe il contatto con l’esterno: è una installazione temporanea ma si fonde perfettamente con le vibrazioni dell’edificio ed è come se fosse una caratteristica fissa, con il suo movimento dettato dal vento tende anche a far risaltare e a prendere l’attenzione, è un’estensione del padiglione ed è come se fosse “un gesto che invita i visitatori ad entrare”.

 
Il piano superiore è retto dai pilotis del piano inferiore, quest’ultimo è, dunque, uno spazio aperto e un luogo d’incontro, “frequentato da esseri umani quanto da gatti randagi e insetti”, viene chiamato bar, ed è materialmente una continuazione dei Giardini della Biennale, è una passeggiata, ci si accorge che è uno spazio preciso dalle installazioni, chiaramente, ma rimane uno spazio aperto a tutti che guida i visitatori a proseguire in questo viaggio: per aumentare ancora di più questo effetto sono disposte delle lastre in bronzo e dei blocchi in marmo sparse per il padiglione che continuano la narrativa e guidano il visitatore all’interno del padiglione. Il piano inferiore è un luogo in cui tutti possono fermarsi per ascoltare, riposarsi o anche per non fare nulla, possono sostare anche le persone che non sono interessate all’argomento, ma è soprattutto un luogo sede di workshop e attività organizzate dal padiglione (sempre seguendo il concetto di rendere un luogo vivo),  l’ambiente aperto offre diverse visioni e percezioni: appena arrivati si nota subito una zona con un grande tavolo in cui si può allenare la fantasia, di fronte c’è una zona in cui si possono allenare i sensi olfattivi con le essenze, le gocce di quest’ultime verranno versate al centro del padiglione per essere percepite da tutti, anche ai visitatori del piano superiore; l’architettura è semplice ed è completamente lignea e si alterna con del verde che non può mai mancare, gli arredi sono tipicamente del posto infatti sono realizzati con i pali di legno tipici della laguna veneziana, le bricole, e con delle balaustre in legno che fungono da espositori.


Un’installazione molto particolare che fa da tramite tra i due piani e anche da tramite tra l’architettura veneziana e quella giapponese è la creazione dell’architetto ceramista Futoshi Mizuno, che ha deciso di rendere l’apertura rettangolare tra i due piani un pozzo, l’installazione si estende dal punto più alto al punto più basso, terminando in una vasca circolare delimitata da ceppi di legno, dall’alto a basso si notano “gocce” che raffigurano il moto della caduta quasi a riprodurre una pioggia che cade e nutre la terra, rappresentate da frammenti di vecchie ceramiche, ancora una volta della laguna veneziana e di Tokoname, la città in cui lavora l’architetto, i frammenti hanno subito piccole lavorazioni artificiali, le grandi lavorazioni sono state fatte in natura dalle correnti: una caratteristica delle gocce e che sono uniche al mondo.

L’interrogativo che si pone la curatrice e i collaboratori, pensando al padiglione, è: “Potremmo coltivare un edificio come si coltiva una pianta?” A mio avviso sì, con il giusto terreno (le fondazioni e la struttura portante), con la giusta acqua (lo studio dell’architetto e i propri sentimenti) e con la giusta illuminazione (la cura di chi vive nell’architettura) un edificio può essere coltivato, sicuramente un’architettura può fare a meno di una di queste 3 caratteristiche, forse non della prima, però senza 1 delle 3 sarebbe solo un edificio vuoto senza alcuna emozione: lo scopo degli architetti è quello di creare edifici che donino percezioni e che a loro volta vengano nutriti dalle attività di chi vive all’interno; questo processo è necessario per arricchire la vita dei visitatori ma anche della terra stessa.

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